Giuseppe Di Napoli

Scolpire il colore

Nell’opera di Pino Di Gennaro il procedimento attraverso il quale lo scultore perviene alla creazione della sua opera è molto simile a un vero e proprio processo morfogenetico, più naturale che artificiale, dove la mano dell’artista, non impone alla materia la violenza del taglio, ma con il suo gesto risveglia creativamente l’anima vegetale rinvenuta durante la fermentazione del materiale, la quale in virtù di questo impulso inizierà lentamente a germogliare la sua forma plastica. Le opere che, più di altre, mi hanno sempre affascinato sono le colonne fitomorfiche, le forme acquatiche, modellate dal più vitale degli elementi naturali, l’acqua, in primis, sul quale interagisce la luce e si posa lo sguardo dello scultore, più che la sua mano. Coerentemente con questa impostazione la scultura di questo artista è mossa anche da un principio etico che guida e aggiunge alla ricerca della qualità estetica un valore universale, in virtù del fatto che lo scultore compie la scelta di lavorare prevalentemente con la cartapesta, un materiale povero recuperato tra gli scarti, al quale contrappone, talvolta, per evidenziarne il contrasto, la materia ricca del bronzo. Gli elementi fondamentali sui quali poggia tutto il lavoro di Pino sono la materia, la forma, la luce, il colore e il tempo; la mano dell’artista, come dicevamo sopra, svolge un mero ruolo di medium al servizio di particolari procedimenti plastici, che gli impongono in modo perentorio come, cosa e quando intervenire con il solo fine di propiziare, assecondare e sostenere un processo di morfogenesi e di trasformazione in fieri che ha inscritto al suo interno la bios e il telos

È la forma ad esercitare una sua volontà ilomorfica e fitomorfica che la mano può soltanto favorire, fungere da levatrice: le sculture di Pino Di Gennaro sono delle vere e proprie forme formans, forme in divenire il cui esito finale trascende la volontà progettuale dell’artista, poiché rispondono nei modi e nei tempi unicamente al divenire metamorfico che si autodetermina come in ogni altro processo autopoietico della natura. È questo un modo di fare scultura che rivendica una sua vita e chiede alla mano e alla mente dell’artista di limitarsi a principiarne la genesi e non a prefigurarne la forma, la quale, come l’embrione, fiorisce dentro di sé, assumendo all’esterno l’aspetto che gli necessita. Per meglio assecondare questo viatico l’artista rinuncia ad imporre con prepotenza la sua volontà alla materia, e così facendo non solo non vedrà sminuita la sua forza creativa, ma acquisirà un privilegio ancora maggiore, quello di ritrovarsi a coadiuvare la volontà creativa della natura, a fare in modo che a scolpire le sue opere siano le stesse forze che continuano a dare vita e modellare le forme viventi.

La morfogenesi di queste sculture sembra rispondere alla volontà generativa di un politopo vivente: ho sempre visto nella loro generazione un isomorfismo con le forme del corallo. Un minerale generato da un animale, che ha la forma di un vegetale, il cui processo metamorfico coinvolge tratti di tutti e tre i regni della natura e si manifesta con un singolare processo di trascolorazione: molti coralli infatti presentano dei pigmenti fluorescenti, che irradiano differenti colorazioni quando vengono illuminati con luci ultraviolette. La materia, dunque, come la forma e il colore, costituiscono gli elementi fluidi che danno vita, nelle opere di Pino, ad una continua trasformazione; essi sono segni del tempo predisposti a liberare potenzialità morfologiche e cromatiche del tutto imprevedibili. In queste sculture il colore non è una pellicola applicata dall’esterno per coprire e nascondere la verità della materia, ma è sempre l’esito, cangiante, di un processo continuo di trascolorazione e decolorazione: è un colore essudato dalla materia.

Qui il colore non svolge una funzione cosmetica, tantomeno risponde a quanto l’etimo latino indica, non vuole cioè celare o velare, ma svolge un ruolo del tutto opposto, quello cioè di svelare e rivelare l’anima interna della materia che, una volta esternatasi alla luce del sole si colorisce delle sue intrinseche cromie: nel teatro della vita, come in quello dell’arte, l’essere coincide sempre con l’apparire. Una delle peculiarità più singolari del colore della cartapesta consiste proprio nel fatto che il suo modo di apparenza estrinseca una proprietà che non sarebbe azzardato definire tattile. È, infatti, un colore interno all’impasto che affiora per plasmazione e questo gli conferisce una valenza anche plastica oltre che ottica. I colori delle opere di Pino oltre che visibili hanno delle perspicue proprietà tattili e aptiche, sono connaturati ad una remota percezione sinestesica che attraversa tanto il visibile quanto il tangibile. Questi colori sono inseparabili dalla struttura della materia in cui appaiono, perché si intridono fin nelle più microscopiche fibre e partecipano, quindi alla sua densità, consistenza, durezza, resistenza, peso, fluidità, compattezza, opacità e trasparenza, in breve al modo di apparire coincidente con il modo di essere della stessa forma plastica. 

Il colore è l’interfaccia tra il mondo fenomenico e quello simbolico attraverso la quale l’occhio vede molto di più di quanto il numero della lunghezza d’onda possa comunicare: in essa oltre alla sensazione cromatica percepisce anche proprietà tattili e polisemantiche, nonché le concezioni, le passioni, i pensieri e le emozioni che quel colore accende nella sensibilità dello scultore e in quelle che hanno infervorato le intenzioni espressive degli artisti di tutte le epoche. Non sappiamo quanto sia una reminiscenza culturale o estetica consapevolmente evocata dallo scultore, ma sembra esplicito il richiamo al fatto che fin dalle sue origini la scultura, da quella arcaica in poi, è sempre stata colorata. Pino di Gennaro modella il colore allo stesso modo in cui modella la terra, la carta e il bronzo, pratica un’attività che nell’epoca classica era considerata ordinaria, quella di eseguire delle sculture policrome definite “graphta andreia”, ovvero statue dipinte, destinate ad essere collocate all’aperto sullo sfondo azzurro del cielo greco, oppure davanti a pareti anch’esse molto colorate, in contesti in cui l’effetto cromatico della statua doveva interagire e combinarsi con i colori della natura e/o con quelli di un determinato sfondo religioso e storico.

Con buona pace degli occhi acromatici di Winchelmann che provavano disgusto nella “costumanza barbarica della colorazione di marmo e pietra”. Nell’antichità le statue venivano concepite dallo scultore fin dall’inizio come forme colorate, non nel senso di una scultura banalmente “colorata”, ma pensata, ideata e realizzata in modo che la colorazione facesse parte integrante della sua struttura formale. Perché erano pienamente consapevoli che il colore oltre a infondere vitalità all’opera costituisce il principale fattore del thaumàzein dell’occhio: una delle ragioni dell’arte è portare stupore e meraviglia negli sguardi focalizzati unicamente su cose e oggetti sempre più insignificanti.

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